Nel 2026 Jovanotti rimette in circolo un’idea di viaggio che non coincide con nessuna delle sue forme precedenti. Non è un tour, non è un format, non è un ritorno alle origini: è una struttura mobile che attraversa territori, città, festival, ciclovie e porti, fino ad approdare al Circo Massimo. L’Arca di Loré prende forma da un impulso fisico, non da un progetto. «Seguivo quello che il mio corpo mi comunica», dice, come se la prima decisione non fosse artistica ma percettiva. L’incidente, le operazioni, la fisioterapia diventano il retroterra di una frase semplice: «L’incontro con questa band mi ha rimesso al posto. Ero felice. E lì ho capito che volevo ripartire». Da quella felicità, però, non nasce un bisogno di celebrazione, ma di movimento.
Jovanotti parla di fuga. Lo fa riportando la memoria alla propria infanzia: quando i genitori litigavano, lui usciva di casa e camminava. «Era il loro modo di comunicare, non il mio. E quindi scappavo». Oggi riconosce lo stesso impulso, solo trasferito altrove: «Di fronte a quello che succede nel mondo, io non posso fare niente. Se non metto un like, che posso fare? Allora sono scappato cercando le cose che mi fanno sentire vivo». La fuga diventa metodo, quasi un gesto di sottrazione al rumore del presente. E come spesso accade nella sua storia, la destinazione è New York.

Lo racconta come un luogo dove l’energia non si progetta ma si subisce: «Ha una concentrazione di musicisti per mezzo quadro». Parte con l’idea di registrare una versione salsa de Il corpo umano con l’orchestra di Spanish Harlem, arrangiata da Oscar Hernandez. Poi la cosa sfugge di mano: «Dopo quattro o cinque giorni ho detto: questo è un disco». Nasce così Niuiorcherubini, che uscirà il 20 novembre ed è stato registrato in sei giorni, su nastro analogico, senza sovraincisioni. «Tutto live, tutto in presa diretta. È un disco molto ritmico, molto funk, pieno di freesync: fomentare il groove». Non c’è una tesi, nessun concept meditato. È un prodotto di reazione, un tentativo di registrare il presente senza addomesticarlo. «I testi sono nati d’istinto. C’è malinconia romantica, ma in movimento». Persino la data d’uscita è improvvisata: «Ci siamo guardati e abbiamo detto: usciamo il giorno prima».
Da New York parte anche l’Arca, che nei mesi successivi attraversa Brisbane, Adelaide, Barcellona, Kinshasa, Montreux, Vienna, Monaco, Vaduz. Le città non sono scelte in base alla dimensione del mercato ma a un criterio di vitalità: «Vado ovunque mi invitano. Non cerco i posti dove è tutto scritto, ma quelli dove ogni sera può succedere qualcosa». L’imprevisto non è un rischio: è l’unica regola.
Il clima generale delle sue parole, però, non è euforico. Jovanotti descrive la contemporaneità come un territorio emotivo instabile: «Eravamo, come sempre, alla fine dei tempi». Una frase che prende da Borges, ma che dice di sentire sua. È un modo per nominare una sensazione collettiva che definisce “marketing della depressione”. «Io appartengo a una generazione cresciuta con l’idea del progresso: più salute, più libertà, più democrazia, più cultura. Molte cose sono avvenute davvero, ma insieme è salita l’ansia». Non contesta la crisi, ma il modo in cui si sedimenta: «Mi interessa partorire il nuovo. Non restare dentro la crisi, ma osservarla». L’Arca, in questo senso, funziona come esperimento di movimento dentro un tempo che percepisce immobilizzato.
Quando rientra in Italia, il progetto cambia rotta: risale la penisola dal Sud verso Roma. «Questa festa itinerante, in sette weekend, si chiamerà Giovanzano». Non punta alle grandi capitali della musica dal vivo, ma ai territori laterali, alle periferie geografiche e simboliche. «Valorizzeremo i posti dove la musica non arriva più. Porteremo felicità, bellezza, follia». Non un concerto, ma un ambiente. Le giornate inizieranno alle quattro del pomeriggio, tra villaggi temporanei, dj, artisti internazionali e locali, cibo dei territori. «Sono nato DJ. Mi piace far ballare la gente al pomeriggio».
Jovanotti sul palco di fronte a una folla immensa durante una delle precedenti edizioni del Jova Beach Party
Il movimento non sarà solo scenico: tra una tappa e l’altra, Jovanotti viaggerà in bicicletta. «Mi ricorda il Cantagiro: giravano l’Italia con i mezzi più cool dell’epoca. Oggi il mezzo super cool è la bicicletta». Evoca la storia di Mogol e Battisti che percorrevano canali e sentieri: «Queste cose mi hanno sempre affascinato». Il Jovagiro non è un’impresa sportiva, ma un’estensione narrativa dell’Arca: un attraversamento lento di un’Italia “bellissima fuori dall’autostrada”, dove fermarsi nei paesi e suonare una canzone diventa parte del progetto.
La band, in tutto questo, non è un accessorio ma il motore dell’intera operazione. «La band è la chiave di questa storia. Non mi accompagna: fa parte dell’Arca». È un ensemble internazionale — Saturnino, Viterbini, Rigano, Santarnecchi, Landolfi, Pradella, Touadi, Vargas, Di Angilla, Kone e la sezione fiati di Petrella — che Lorenzo descrive come un organismo vivo, mobile, imprevedibile. La scelta della band dice più di molte spiegazioni: l’Arca non è un contenitore, ma un dispositivo relazionale.
Singolare, per un artista pop, è l’attenzione dedicata alle amministrazioni locali. «I sindaci sono fondamentali. L’aiuto logistico è essenziale». È un riconoscimento esplicito del fatto che progetti di questa scala non esistono senza una rete istituzionale, e che l’Arca non vuole semplicemente “passare”, ma interagire con i territori che attraversa.
Il tema della sostenibilità non viene trattato come una parola magica, ma come una continuità pragmatica del PalaJova: «Abbiamo abbattuto il 102% delle emissioni». L’Arca utilizza energia rinnovabile, biometano, tecnologie di recupero dei materiali. Non è una cornice ideologica, ma una procedura, una struttura operativa.
Alla fine, però, tutto converge su un punto: il rapporto col pubblico. «Non vedo l’ora di andare a chiamare la mia gente. Perché insieme stiamo scappando. O forse stiamo andando verso qualcosa». La frase, più che grandiosa, è vulnerabile: riconosce che la fuga non è mai individuale. Verso la fine, a chi gli chiede il senso ultimo dell’Arca, risponde citando Carabba: «Nel racconto dell’Arca immaginata, c’è una voce che dice a Noè: fai di me, fai di me, fai di me. Questo è il mio compito. Non so se è un fallimento costante o un successo costante».
L’Arca di Loré è, in definitiva, un progetto eccentrico: ambizioso, a tratti contraddittorio, mai rassicurante. Non cerca la forma perfetta, ma una forma possibile. Come molti lavori che tentano di reagire al proprio tempo, rischia di essere vittima della sua stessa ampiezza. Ma proprio per questo diventa interessante: non come evento, ma come laboratorio, come cantiere che usa il movimento per sfidare l’immobilità del presente. «La forma è già lì», dice Lorenzo. «Devi solo ascoltarla arrivare».

















