C’è qualcosa di profondamente rivelatore nel modo in cui The Bad Boy and Me, esordio alla regia di Justin Wu, si impone come fenomeno culturale prima ancora che come film. Non è soltanto una commedia romantica per adolescenti, come la superficie del titolo potrebbe suggerire. È, in modo più sottile e coerente, la messa in scena di un sentimento collettivo: quello di una generazione che vive sospesa tra la rappresentazione e la realtà, tra il bisogno di essere vista e la paura di essere giudicata.
The Bad Boy and Me,in anteprima al festival Alice nella Città nasce da una visione che mescola rigore tecnico e sentimento. L’attenzione quasi ossessiva per la composizione dell’inquadratura, l’uso calibrato della luce, l’armonia cromatica delle scene: tutto tradisce la mano di chi proviene dal mondo della fotografia. Ma dietro questa eleganza estetica c’è qualcosa di più profondo: una nostalgia di quella “innocenza visiva” che il cinema contemporaneo tende spesso a disprezzare. Per Wu, The Bad Boy and Me è un atto di resistenza contro il cinismo. In un’epoca che tende a smontare e decostruire tutto, lui sceglie di costruire ancora: emozione, bellezza, empatia. È un gesto, quasi, di fede laica nel potere delle storie.
Il regista canadese di origini asiatiche, ha cominciato come fotoreporter, poi come fotografo di moda per riviste come Vogue, Elle e GQ, prima di passare alla regia di spot e serie TV. “La televisione mi ha dato una formazione solida,” racconta. “Mi ha insegnato il ritmo, la pazienza e la collaborazione”. Ogni passaggio di questa traiettoria converge nel film d’esordio, che egli stesso definisce “un coronamento e una ripartenza” .Un film che parla d’amore, certo, ma di un amore filtrato dalla fragilità del tempo presente — un tempo in cui tutto è condiviso, osservato, misurato e spesso travisato. “Ogni regista sogna un lungometraggio,” racconta “ma per me non era solo una tappa: era la necessità di mettere insieme tutto ciò che ho imparato in anni di immagini”.
Noah Beck, il volto di una generazione interconnessa, figura emblematica di un tempo in cui le identità si formano sui social media. È nato nel mondo digitale, come content creator e atleta, diventando in breve un’icona globale. Ma il suo passaggio al cinema non è un capriccio mediatico: è una ricerca. “Crescendo a Phoenix non avrei mai pensato di recitare”, racconta Beck. “Il calcio era la mia vita, poi sono arrivati i social. Ma a un certo punto mi sono chiesto: posso dire qualcosa di vero anche sul grande schermo?”.
Quella domanda è diventata un inizio. “Ho iniziato a studiare, a guardare film, a capire la differenza tra interpretare e mostrarsi”, spiega. “E ho scoperto che la recitazione è un atto di fiducia. Devi lasciarti guardare per davvero”.
Wu non l’ha scelto per la fama, ma per la curiosità. “Con Noah abbiamo lavorato come con qualsiasi altro attore”, spiega il regista. “Ho voluto capire chi fosse, cosa portasse dentro. Alcune battute del film nascono dalle sue esperienze: la disciplina dello sport, la pressione del successo, il senso di solitudine dietro l’immagine pubblica”.

















